La diffusione della medicina predittiva ed il conseguente utilizzo dei test predittivi e di suscettibilità hanno contribuito a dare significato al concetto di una nuova “branca” della medicina: la medicina personalizzata. Il problema è che negli ultimi anni la possibilità di analizzare il genoma umano, e di creare quindi un percorso terapeutico  ad hoc per ogni tipo di patologia a seconda del corredo cromosomico, ha indotto numerosi laboratori diagnostici (sia pubblici sia privati) ad offrire la possibilità di sottoporsi a test genetici (a prezzi relativamente contenuti), creando quindi un nuovo mercato di potenziali consumatori (definiti, come già illustrato in precedenza, “genocondriaci”, “unpatients”, “pseudomalati”).

I timori per questa vera e propria “corsa al test genetico” si sono concretizzati nel momento in cui le compagnie farmaceutiche e biotecnologiche, i laboratori, e tante altre tipologie di aziende, hanno iniziato a promuovere , soprattutto tramite internet, la vendita di kit genetici, che sono direttamente acquistabili dal consumatore (di qui il nome Genetic Test Direct – To – Consumer, DTC)[1]. Il mercato della cd. genomica di massa  è molto vario: l’azienda leader in Europa è l’islandese De-CodeMe, il ramo DTC di DeCodeGenetics[2] (un pacchetto completo sul sito decodeme.com costa sui 1000 dollari circa, ma la cifra sarà destinata ad abbassarsi); negli Stati Uniti (e forse nel mondo) spicca la 23andme.com.[3] È quindi possibile acquistare il kit genetico direttamente dalla pagina web di queste aziende: una volta ordinato viene recapitato al destinatario in una scatola; al suo interno vi sono delle istruzioni ed un contenitore che il cliente deve riempire con un suo campione biologico (generalmente uno sputo, l’analisi viene infatti effettuata sulla saliva);  il contenitore deve poi essere rispedito all’azienda che svolgerà il test; entro breve tempo l’acquirente potrà visionare i risultati della scansione del proprio genoma accedendo, direttamente da casa propria, al database del laboratorio di genetica con credenziali proprie. Si sottolinea che tutti i siti di genomica personalizzata riportano esplicitamente che le notizie sul DNA di ciascun cliente da loro fornite hanno mera finalità informativa ed educativa; tuttavia, offrendo analisi predittive sulle malattie, appare chiaro come i potenziali consumatori ne siano attratti e credano molto a queste promesse, anche perché le stesse azienda pubblicizzano questa loro attività mettendola a disposizione anche dei medici, i quali potrebbero usare certe informazioni per la salvaguardia dei propri pazienti.

In realtà, le aziende fornitrici dei test genetici DTC, pur attraendo i clienti con promesse di predire condizioni mediche importanti, si guardano bene dal conferire ai propri risultati una valenza diagnostica  certificata; una certificazione non sarebbe nemmeno possibile: nella maggior parte di casi, le malattie complesse come l’infarto, l’Alzheimer, il Parkinson, i tumori e molte altre hanno sì una componente genetica, ma questa è talmente complessa da non essere per ora riducibile a qualche semplificato test genetico, tanto più fornito senza alcuna consulenza professionale.

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Nei siti di genomica di massa la parola che ricorre più spesso è empowerment. «Il termine, difficile da tradurre in italiano, fa riferimento “all’accrescimento spirituale, politico, sociale o della forza economica di un individuo o una comunità e significa sentire di avere potere o sentire di essere in grado di fare”. In definitiva l’empowerment sottintende la possibilità individuale  di intervenire sul proprio destino. […] Nel marketing della genomica di massa l’empowerment assume però un’accezione tutta particolare, che possiamo riassumere in una semplice idea: più sappiamo e meglio è. Se crediamo alle aziende che propongono esami del DNA, ogni informazione sulla nostra suscettibilità genetica è comunque utile perché permette di prendere coscienza dei propri rischi in modo da poter agire e pianificare di conseguenza.»[4]

La genomica di massa ed i DTC hanno generato anche un altro fenomeno,  il social networking genomico, definito anche genoma 2.0: una volta che si ha acquistato il kit genetico per l’analisi del proprio genoma, e dopo aver ottenuto le credenziali per accedere ai risultati on line, è possibile condividere tali informazioni con altri utenti, attraverso la creazione di vere e proprie piattaforme tecnologiche sulle quali sono visibili i genomi di migliaia di sconosciuti (che hanno ovviamente aderito al programma), entrando quindi in una sorta di “Facebook della genetica”. Un po’ dappertutto su internet sorgono comunità virtuali e blog dove le persone condividono le loro snip e discutono sui loro dati genetici: alcune di queste community sono costruite all’interno dei siti “ufficiali” per la genomica di massa, altre invece vengono create ad hoc senza costi aggiuntivi, sui social network più comuni quali Twitter, Facebook e tanti altri.[5] Tutto questo potrebbe portare a nuove forme di discriminazione: i tratti dei vari “identikit genomici” condivisi in rete potrebbero fornire informazioni utili al marketing di molte agenzie pubblicitarie che sfrutterebbero determinate caratteristiche fisiche, intolleranze alimentari o predisposizioni a certe patologie per pubblicizzare sui profili personali prodotti (alimentari, farmaceutici o altro) ad hoc.

Il 24 febbraio 2003 è stata approvata la Dichiarazione del Gruppo Europeo sull’Etica della Scienza e delle Nuove Tecnologie sulla pubblicità per i test genetici su internet.[6]

Anche il Garante per la Protezione dei Dati Personali ha dichiarato che occorrerebbe sviluppare una forte consapevolezza sociale per non cadere nella cd. “genomizzazione della medicina[7], evidente nell’offerta dei kit genetici a buon mercato senza alcuna consulenza medica e genetica. Secondo una stima della Società italiana di genetica umana, dal 2004 al 2007 i test di suscettibilità eseguiti nel nostro Paese sono aumentati del 30%. Ciò ha reso molto meno controllabile il fenomeno: se da una parte molte di esse assicurano di appoggiarsi a strutture accreditate per l’esecuzione dei test, dall’altra alcune si affidano invece a laboratori privati non certificati rendendo poco affidabili i risultati stessi. Oramai si parla di DYG: Do it Yourself Genetic, la genetica fai da te, persino su Google è possibile trovare istruzioni su come eseguire i test o addirittura effettuare degli esperimenti di ingegneria genetica.

La libertà di leggere il nostro DNA si scontra con gli interessi della società. Da un lato, in una società ipermedicalizzata come la nostra, dove le esigenze e le spese sanitarie si fanno sempre più preponderanti, risulta ovvio che i Governi cerchino di “risparmiare” su attività che possono essere garantite da servizi privati; dall’altro, il diritto alla privacy  ed all’autodeterminazione informativa si estende, arrivando non solo a ricomprendere il poter di controllare la circolazione delle proprie informazioni (genetiche), ma anche il diritto ad accedere ed a disporre di informazioni che non sono ancora in toto comprensibili e soprattutto certe e complete.[8]

Oramai eventi di tale portata accadono a prescindere da noi, nuovi concetti sociali stanno irrompendo nel nostro panorama giuridico: nel campo delle tecnologie di enhancement, purtroppo, si rende necessario cambiare i parametri di riferimento dei diritti fondamentali, in quanto ad essere complessa è proprio la loro azionabilità. Invocare un diritto all’identità genetica, un diritto ad un patrimonio genetico non modificato, un diritto alla protezione delle  proprie informazioni genetiche non ha più il senso di prima: c’è addirittura il rischio che, in un futuro non troppo lontano, qualcuno invochi un diritto alla privacy (genetica) per coprire comportamenti o situazioni illegali (nel caso di specie, potenziamenti non autorizzati, mutazioni del patrimonio genetico, alterazioni biologiche, etc.). Ecco allora che  risulta sempre più necessario creare degli strumenti malleabili, una sorta di soft law che detti le regole generali, starà poi alle singoli istituzioni (magari dei comitati etici ad hoc) decidere e valutare caso per caso. I fundamental rights rimarranno comunque un riferimento, così come anche le varie legislazioni locali, ma risulterà prioritario modificare tali disposizioni, aggiornarle ed adattarle alle nuove situazioni.

«no matter what we may say, genetic research will continue. The train has moved. Advances will be made, many of which will, to take a beneficent perspective, help to enhance the quality of human life»[9].


[1] Il rapporto della Human Genetic Commission “More Genes Direct. A report on developments in the availability marketing and regulation of genetic tests supplied directly to the public” distingue due tipologie generali di test accessibili dai consumatori ed in rete: i Direct – To – Public (DTP, test ottenibili senza intermediazione di un esperto, medico o farmacista) ed i Direct – To-Consumer

[2] La DeCodeGenetics fece scalpore, molti anni fa, per aver lanciato il primo studio di massa sul DNA  della popolazione islandese (senza il consenso dei diretti interessati), prelevando i campioni direttamente dalle biobanche ospedaliere

[3] Generalmente i test che vengono offerti (dipende dall’azienda cui ci si rivolge), sono di 4 tipi:

«a) la suscettibilità genetica ad una serie di malattie;

  1. b) la probabile risposta individuale ad alcuni farmaci;
  2. c) la predizione di svariati tratti personali, che vanno dal colore degli occhi alla (presunta) attitudine alla memoria o allo sprint;
  3. d) l’origine familiare ed etnica» (cfr. Sergio Pistoi, Il DNA incontra Facebook, Marsilio ed. (Padova) 2012, pag. 16)

Il Personal Genome Service della 23and Me è stato “chiuso” nel dicembre 2013 dalla FDA americana. In realtà queste tipologie di analisi offerte  non scandagliano l’intero genoma umano, risultando spesso imprecise se non errate. Intanto sarebbe bene distinguere fra test prescritti per la diagnosi di patologie genetiche provocate dalla mutazione di un singolo gene (« queste malattie sono molte, anche se rare, ma sappiamo perfettamente quale pezzetto di Dna indagare per capire se c’è l’alterazione indicativa di patologia. Questi test non danno problemi di interpretazione, i metodi per l’analisi del Dna sono standardizzati ed il risultato inequivocabile […]» intervista a Antonio Amoroso, presidente SIGU, da un articolo de Il Corriere della Sera, 16 febbraio 2014) e le malattie cd. multifattoriali, nelle quali i geni hanno un ruolo ma solo parziale, in quanto ad influire ci sono altri fattori quali l’ambiente, lo stile di vita, l’alimentazione, etc., di conseguenza i geni responsabili sono collocati in punti variabili, che spesso non vengono individuati correttamente. Di certo è che il test della 23andMe, nonostante sia stato venduto ad oltre 500mila persone, non ha ottenuto l’approvazione della FDA. Nel 2012, quando era già in commercio da 5 anni, per il Personal Genome Service     fu richiesta l’autorizzazione come dispositivo medico di classe 2 (ovvero per la categoria di prodotti che non mettono a rischio il paziente e per i quali, se sono simili ad altri già presenti sul mercato, non servono sperimentazioni). L’ Fda rifiutò l’autorizzazione richiesta, sottolineando che questo genere di test non è analogo ad altri dispositivi medici esistenti.

[4] Sergio Pistoi, il DNA incontra FAcebook, op. cit., pag. 90. Sembra quindi che la finalità terapeutica e diagnostica, che il test genetico dovrebbe avere, lasci spazio ad una finalità del tutto informativa: tante informazioni che possono liberamente essere acquisite dall’interessato (e non solo da lui: una volta consegnati i dati al laboratorio che li deve analizzare, chi assicura che essi vengano utilizzati solo ed esclusivamente per le finalità di analisi? Chi sono i titolari e gli incaricati del  trattamento?)  per determinare le proprie scelte di vita ed esserne condizionati; senza contare che molto spesso i risultati dei test, senza una guida medica, non vengono compresi dagli interessati. Per approfondimenti, si veda anche l’articolo di Bridget M. Kuchn, Risks and benefits of Direct – to – Consumer Genetic Testing Remain Unclear, in Journal of American Medical Association, October 1, 2008, vol. 300, no. 13

[5] All’interno di queste comunità si può trovare di tutto: chi è alla ricerca di parenti per conoscere il proprio albero genealogico; chi, malato, che ha semplicemente bisogno di condividere le proprie ansie o di cercare risposte; qualche “genocondriaco”; chi ha una pura curiosità intellettuale da soddisfare, e tanti altri.

[6] Nella dichiarazione si legge che «le informazioni attualmente offerte tendono ad essere fuorvianti ed incomplete, soprattutto alla luce della bassa prevedibilità dell’insorgere di patologie sulla base dei risultati di test genetici qualora vi siano caratteri multigenici. Spesso non vi sono sufficienti garanzie che i dati genetici inviati per i test siano stati raccolti rispettando le norme sul consenso degli interessati […] I test genetici possono avere conseguenze negative se non si accompagnano ad un’adeguata consulenza […] Le conseguenze individuali e sociali dei test genetici devono essere rigorosamente valutate. Alla luce delle particolari caratteristiche dei dati genetici, è possibile che si verifiche la violazione di diritti fondamentali, in particolare l’eguaglianza. Possono essere messe a rischio sia la salute delle persone sia la riservatezza dei dati sanitari. La pubblicità dei test genetici tende a trasformarli in merce ed a produrre una domanda di test genetici che può avere effetti di disgregazione delle relazioni sociali ed interpersonali» European Group on Ethics in Science and New Technologies on advertising genetic tests via the internet, 24 February 2003, reperibile sul sito http://www.ec.europa.eu/europeangroupethics/docs/statement_ege_advertising_genetic_en.pdf

[7] Queste preoccupazioni sono state manifestate durante un convegno tenutosi il 21 giugno 2000, reperibile sulla newsletter 26 giugno – 2 luglio 2000 http://www.garanteprivacy.it/web/guest/home/docweb/-/docweb-display/docweb/46320

[8] Quello che chiede l’individuo (e  la società) è di  mantenere uno stato di non – accesso nei confronti delle

proprie informazioni (e quindi di essere protetto da chi utilizza i suoi dati) e di avere il pieno controllo delle proprie informazioni, e quindi  poter disporre liberamente di ciò che la scienza e la tecnologia offrono. , nel rispetto delle Convenzioni Europee sulla libera circolazione delle merci, non può essere in assoluto vietata la vendita diretta di alcuni test genetici, né impedito all’utente il loro libero acquisto. (Ad esempio, la Direttiva 98/79/CE che disciplina i dispositivi medico – diagnostici in vitro (e che li definisce, all’art. 1 lett. b) come «qualsiasi dispositivo  medico composto da un reagente, da un prodotto reattivo, da un calibratore, da un materiale di controllo, da un kit, da uno strumento, da un apparecchio, un’attrezzatura o un sistema, utilizzato da solo o in combinazione, destinato dal fabbricante ad essere impiegato in vitro per l’esame di campioni provenienti dal corpo umano, inclusi sangue e tessuti donati […]») non sembra includere nelle sue definizioni i famosi home DNA tests kits, per i quali è invece richiesta solo un’autocertificazione (reperibile sul sito  http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pagineAree_1636_listaFile_itemName_0_file.pdf)  Al momento,  ogni Governo ha comunque la possibilità di regolare il fenomeno attraverso norme interpretative della Convenzione e del Protocollo Genetica coerenti con la scelta dei test che necessitano di prescrizione medica e di consulenza genetica.

In ogni caso perché si abbia una adeguata applicazione delle norme prudenziali previste dal Consiglio d’Europa, sarebbe opportuno rivedere a monte la collocazione senza alcuna specificazione dei test genetici nell’ambito dei “dispositivi medici e diagnostici in vitro”, facendone una categoria (sia pure collegata al quadro generale) con una specificità e quindi regole proprie.

[9] D. Koh, Genetic Science. The person and the Common Good, in M.L.Y. Chan – R. Chia (edd.), Beyond Determinism and Reductionism: Genetic Science and the Person, Australian Theological Forum, Adelaide 2003, 124-141