Li chiamano i “mai nati”. Sono gli embrioni congelati, protetti in apposite strutture sanitarie in attesa, un giorno, di vedere la luce e di diventare esseri viventi meritevoli di amore ed attenzione.

Il tema della fecondazione assistita è da sempre delicatissimo: numerose sono le coppie che ricorrono alla pratica dell’inseminazione artificiale nella speranza di poter allargare la propria famiglia. La crioconservazione è il procedimento ottimale per conservare gli ovuli in attesa di essere reimpiantati in madri naturali o surrogate. Cosa accade, però, agli embrioni che non vedranno mai la luce? Mantenere questo “materiale genetico” (terminologia medica) in strutture preposte costa molto, e non tutti possono permettersi di mantenere dei probabili futuri figli

Il caso Sophie Vergara

Una recente disputa negli Stati Uniti ha riacceso la polemica.

Il caso risale all’inizio del 2015: un tale Nick Loeb, uomo d’affari americano, e la sua ex fidanzata Sofia Vergara, attrice decisamente più nota, si contendono il possesso di due embrioni fecondati in vitro poco più di un anno prima; i due, infatti, avevano fatto ricorso alle tecniche riproduttive, per poi tentare una surrogacy (fallita), e quindi lasciarsi definitivamente. Ora lui vorrebbe utilizzare gli embrioni e lei invece no, anzi, vorrebbe addirittura distruggerli. L’uomo ha quindi promosso una causa presso un tribunale di Santa Monica in California allo scopo di recuperare i due embrioni fecondati e congelati di sesso femminile e poter così realizzare il proprio desiderio di paternità.

Le domande che il caso solleva sono molte. Può Loeb, per esempio, far impiantare gli embrioni in un’altra donna senza il consenso di Vergara? Di chi sono gli embrioni congelati e che succede in caso di controversia? E ancora: gli embrioni hanno il diritto di nascere?

La risposta dipende anche dalle leggi dei singoli Stati. Negli USA solo 9 Stati hanno leggi precise in materia di fecondazione assistita e di trattamento degli embrioni allorquando la coppia titolata a utilizzarli si sia separata. La giurisprudenza, tanto in Usa quanto nell’Unione Europea, prevede che senza il consenso esplicito dei due “genitori” non si possa procedere all’impianto,[1] tanto che nelle strutture dove si pratica la crioconservazione si richiedono autorizzazioni specifiche in caso di morte di uno dei due partner. Vergara, attraverso il proprio legale, ha reso noto di aver invero intenzione di mantenere gli embrioni congelati a tempo indeterminato.

Nelle controversie c’è la tendenza a favorire chi è contrario all’impianto. Il desiderio di non diventare genitore sembra insomma essere più forte o, detto in altro modo, la violazione di questa non volontà sembra essere più grave della frustrazione causata dal diniego in caso di disaccordo

I media, nel commentare la vicenda, hanno preso posizioni diverse. C’è chi ha detto che bisogna tenere conto del legame genetico: se l’embrione, prodotto tramite eterologa, è figlio biologico solo di uno dei due membri della coppia, starà solo a quest’ultimo decidere la sua sorte. Altri hanno preso a modello il principio che soggiace all’aborto: come sta alla donna la decisione di portare a termine una gravidanza oppure no, così deve essere lasciato anche al maschio uguale scelta. Altri ancora affermano che la situazione della donna e dell’uomo è simmetrica perché entrambi hanno il diritto di diventare genitori così come hanno pari diritto a non diventarlo: privilegiare una parte significherebbe fare un torto all’altra.

Tommaso Scandroglio, in un articolo recente, afferma che «Sono tutte soluzioni erronee perché partono dal presupposto gravemente iniquo che si abbia un diritto sul figlio e che quindi esista un diritto alla genitorialità. Mai si può predicare un diritto su una persona (semmai può esserci un diritto su una prestazione della persona), altrimenti questa diventerebbe “cosa”, oggetto di proprio possesso. La prospettiva deve essere rovesciata. Il punto di vista privilegiato non deve essere quello di Miss Vergara o di Mr. Loeb, bensì dei loro due figli la cui esistenza è sospesa in un freezer. Loro, al pari di moltissimi altri compagni di sventura, hanno il diritto sia a vivere, questa loro condizione di congelamento infatti attenta fortemente al loro diritto alla vita, sia di nascere, dato che non è consono alla dignità della persona umana continuare a vivere in un congelatore. Il problema etico sta nel modo in cui soddisfare questo loro diritto. Espresso nei termini propri della morale naturale, occorre che il fine buono di far nascere questi bambini sia realizzato per il tramite di un’azione il cui oggetto sia altrettanto buono. Mai, infatti, si può compiere il male anche per un fine buono. Il Magistero, al numero 19 dell’istruzione Dignitas Personae della Congregazione per la Dottrina della Fede, si occupa di questo caso. Il documento esclude ovviamente che si possano usare per fini sperimentali questi embrioni, perché pratica non consona alla dignità del nascituro e poi perché in tal modo si provocherebbe la loro morte. Farli nascere allora? Qui in linea teorica ci potrebbero essere due soluzioni. La prima: la donna che riceve questi embrioni nel proprio utero non è la loro madre biologica. Il Magistero esclude la liceità di questa ipotesi perché sarebbe acconsentire alla maternità surrogata. É solo la madre naturale che può lecitamente portare alla luce il proprio figlio. Seconda ipotesi: scongelare gli embrioni e impiantarli nell’utero della propria madre biologica. Tra gli studiosi ci sono due posizioni a riguardo. C’è chi accetta questa ipotesi perché la pratica della fecondazione artificiale, tecnica intrinsecamente malvagia, si sarebbe già conclusa e l’impianto in utero non farebbe parte di questa pratica, bensì sarebbe solo un’azione terapeutica, quindi lecita, volta alla salvezza del figlio per il tramite di una gestazione, quella della madre, anch’essa eticamente accettabile. In buona sostanza si tratterebbe di riportare nell’alveo naturale degli eventi ciò che la fecondazione artificiale aveva distratto dal suo corso.»[2]

In un quotidiano statunitense[3] viene riportata una descrizione dei principali 3 metodi usati dalle Corti per decidere questo tipo di controversie:

  • Il balance approach, utilizzato in Tennessee, New Jersey, e Pennsylvania, consiste nel soppesare i 2 desideri contrapposti, del partner che desidera tenere gli embrioni e di quello che invece non ne vuole più sapere (un esempio di questo tipo di metodo è il caso Davis vs. Davis, di cui se ne parlerà a breve).
  • Il contractual approach, consiste nel far firmare un vero e proprio contratto pre-concepimento. Esso viene utilizzato in molte cliniche dell’infertilità.
  • Il mutual consent, il quale prevede il consenso di entrambi le parti per qualsiasi decisione inerente gli embrioni.

Il problema, tuttavia, permane: nonostante l’esistenza di pre-accordi infatti, è moralmente lecito cambiare idea all’improvviso, o decidere di porre fine ad una relazione, in questo caso oggetto di un contratto non sono beni mobili od immobili, bensì esseri viventi, persone in divenire, il che li rende difficilmente oggettivabili e trasponibili su carta.

Il caso Davis vs. Davis

Non è la prima volta che due individui non sono d’accordo sul destino dei propri embrioni. Il primo caso negli Stati Uniti fu quello di Davis vs. Davis: allora era il marito a voler distruggere gli embrioni e la moglie a volerli donare a una coppia senza figli. La Corte suprema aveva dato ragione a lui.[4] Il Giudice di merito emise un primo verdetto nel 1989, concedendo alla donna la custodia dei “pre-embrioni” per eventuali e futuri impianti (la sua decisione si era basata sul parere di un geneticsta francese, Jérôme Lejeune, chiamato a deporre, il quale aveva affermato che che la vita umana inizia al concepimento e che i preembryos erano esseri umani).

Junior fece appello alla Corte d’Appello del Tennessee, affermando che la sentenza della corte inferiore aveva violato la legge federale: lo Stato infatti gli richiedeva di diventare diventare genitore contro la sua volontà.

La Corte d’Appello ribaltò la decisione del giudice di merito nel settembre del 1990, sancendo che, non avendo avuto luogo alcuna gravidanza, Junior aveva il diritto di non diventare un genitore contro la sua volontà. La Corte d’Appello assegnòla custodia congiunta dei pre-embrioni a Mary Sue e Junior, stabilendo che le parti sarebbero diventate genitori solo nel caso in cui entrambi fossero d’accordo.

Mary Sue fece appello contro tale decisione alla Corte Suprema del Tennessee nel dicembre 1990, contestando la validità costituzionale della sentenza. Nel frattempo entrambe le parti si erano risposate ed avevano abbandonato le loro posizioni originali: mentre Mary Sue avrebbe voluto donare i preembryos ad una coppia senza figli, Junior voleva distruggerli.

La Corte Suprema risolse il problema di personalità in base al diritto dello Stato del Tennessee affermando che i preembryos appartengono ad una “categoria intermedia che dà loro diritto al rispetto speciale a causa del loro potenziale per la vita umana.” Anche se i bambini non ancora nati non hanno i diritti legali di una persona già nati, la Corte ha argomentato che meritano maggior rispetto in base alla legge di proprietà a causa del potenziale per la vita. Mary Sue e Junior mancavano di interessi di proprietà dei preembryos, ma la corte ha concluso che sono i fornitori del materiale genetico ad avere l’autorità ed il potere di prendere decisioni circa il destino di esso. Nella sua decisione del giugno 1992, il giudice decise quindi che il “fardello” di Junior di sopportare una paternità indesiderata superava di gran lunga la volontà di Mary Sue di donare i preembryos ad un’altra coppia. Se il bambino, geneticamente figlio di Junior, fosse nato “presso” un’altra coppia, l’uomo, sostenne la Corte, avrebbe pouto, potenzialmente, perdere sia la sua autonomia sia la sua capacità procreativa. Mary Sue, d’altra parte, poteva ancora ottenere una genitorialità genetica attraverso trattamenti di fecondazione in vitro futuri, anche se i preembryos esistenti sarebbero stati distrutti.[5]

Il caso Evans

Altro caso tristemente è quello di Natallie Evans (2006). Una donna di 35 anni, sterile in seguito a terapie tumorali, che prima di ricorrervi aveva effettuato preventivamente una fecondazione in vitro, concependo sei embrioni poi crionservati presso un centro di sterilità inglese. Nonostante la separazione sopraggiunta dal partner e convivente, spinta da un grande desiderio di maternità, Natallie aveva quindi chiesto il trasferimento degli embrioni in utero, ma l’uomo aveva ritirato il suo consenso.

La Evans si rivolge a tutte le istanze giuridiche presenti in Gran Bretagna. Ma per la legge inglese se l’uomo revoca il consenso all’ impianto, il figlio non nascerà mai, anche se la conseguenza è la distruzione dell’embrione (prevista, comunque, dopo cinque anni di conservazione al gelo). La donna non si arrende: si appella alla Corte di Strasburgo che conferma il verdetto sottolineando che i diritti del donatore uomo non sono meno degni di tutela di quelli della donna.[6] La maternità non può certamente essere imposta, avevano argomentato i giudici, e questo principio deve valere anche per la paternità. Tanto più che si devono considerare anche gli aspetti economici e giuridici dell’essere costretti a diventare padre.[7]

Oggi le biotecnologie avanzate trovano ormai ampia utilizzazione sia per la ricerca scientifica che per la produzione industriale e, di conseguenza, per l’invenzione biotecnologica si chiedono le stesse forme di tutela proprie di tutte le altre invenzioni.

Tuttavia, anche quando un trovato biotecnologico riesce a soddisfare i requisiti imposti dal sistema brevettuale, permangono ancora forti le resistenze e le difficoltà dal punto di vista etico nell’accettare la brevettabilità del vivente e, spesso, le invenzioni in materia vengono condannate di per sé, per il solo oggetto che le caratterizza, «al limbo della illiceità»[8]. Si supera in tal modo la distinzione tra norme che disciplinano l’attribuzione di un brevetto e norme «che regolano l’attuazione pratica delle scoperte e delle invenzioni, brevettate o non brevettate»[9], evidenziata più volte dalla dottrina italiana quanto da quella straniera, soprattutto anglosassone, secondo la quale il sistema dei brevetti sarebbe di per sé “ethically neutral”in quanto «granting a patent is an event from which nothing follows consequentially and inevitably in terms of human action. Therefore patenting cannot be classified as wrong, or even right, but can put into the category of the ethically neutral»[10]. Tale affermazione si fonda sulla distinzione tra norme che disciplinano l’attribuzione di un brevetto e norme «che regolano l’attuazione pratica delle scoperte e delle invenzioni, brevettate e non brevettate».[11]

In un campo che si apre verso scenari sempre più mutevoli, che superano i singoli ambiti nazionali espandendosi a livello globale, l’analisi giuridica si scontra con non poche difficoltà.

La prima, vista la dimensione in cui si muove la scienza, consiste nella difficile individuazione di principi condivisi ed universalmente validi, capaci di stabilire limiti e regole uguali per tutti.

I principi desumibili dalla Nostra Carta Costituzionale, quali gli articoli 9, 32 e 33 Cost.[12] offrono spunti interessanti di riflessione, ma non possono esaurire la cornice informativa. Lo stesso vale per il Codice Civile, che all’art. 5 sancisce il principio personalistico per cui «Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente della integrità fisica, o quando siano altrimenti contrari alla legge, all’ordine pubblico o al buon costume». Il Codice privacy, nello specifico l’Autorizzazione al trattamento dei dati genetici[13], considera l’intero complesso dei dati sensibili sottratto alla piena disponibilità degli stessi interessati, per quanto riguarda i soggetti pubblici, la legittimità del trattamento è subordinata all’esistenza di un’espressa disposizione di legge: sembrerebbe quindi che vengano esclusi totalmente gli interessi economici. Tutto questo non pare sia realizzabile concretamente: è infatti impossibile non considerare gli aspetti economici che vi sono dietro l’informazione genetica[14]: si è già parlato del ricorso alle informazioni genetiche in materia assicurativa e dei rapporti di lavoro; le discriminazioni sociali aumenterebbero nei confronti di coloro che sono geneticamente portati a manifestare determinate patologie genetiche, con danni economici enormi dovuti ad un loro isolamento oppure ad un calo dei consumi per tanti settori ai quali magari questi “malati” non potrebbero più accedervi; la disponibilità sul mercato di beni genetici di diverso tipo potrebbe portare ad una “corsa genetica” dove coloro che sono dotati di più mezzi potrebbero reperire le risorse più vantaggiose[15].

La seconda difficoltà è la consapevolezza, quasi certezza, che il brevetto non serve più a tutelare la paternità scientifica della scoperta, della sua applicazione e dei vari benefici da parte del singolo ricercatore, bensì, a garantire all’azienda titolare del brevetto lo sfruttamento commerciale esclusivo. A ciò si aggiunge che tutto questo non avviene in misura equa in un libero mercato, ma a costi altissimi che poche aziende possono permettersi.[16]

In generale è fatto divieto di cessioni del corpo dietro corrispettivo.[18] Ma il divieto di fare del corpo e delle sue parti una fonte di lucro per chi vale? Solo per il soggetto del cui corpo si tratta o anche per eventuali terzi una volta effettuata la cessione, a titolo gratuito? La successiva circolazione potrebbe avvenire anche a titolo oneroso, una volta che la parte staccata viene trattata da terzi. Nel famoso caso Moore è stato negato al signor M. il diritto di proprietà sulla sua milza e sulle sue cellule e ritenuto invece legittimo il loro sfruttamento da parte dei medici che lo avevano in cura.

Le possibilità di sfruttamento del corpo e delle sue parti hanno quindi messo in luce una nuova dimensione del diritto su sé stessi.[19] Il problema rimane comunque capire di che natura sia questo diritto e soprattutto che dimensioni ricopre nel momento in cui ricade nella disponibilità di terze persone.

Quindi, si può pensare al corpo e alle sue parti come ad una merce di proprietà di qualcuno che non sia il suo detentore originale? Il brevetto lo si è definito come una “proprietà intellettuale”, ma su che cosa? Sugli oggetti inanimati è scontato, sugli esseri viventi la faccenda diventa più complicata. Tutto dipende dal modo in cui si intendono il corpo e le sue parti.

Oramai il progresso è inarrestabile, nei laboratori vengono prodotti cellule ed organismi sintetici di tutti i tipi[21], che quindi possono essere brevettati da chiunque.

Nella società della polis genetica le guerre sui brevetti migliori saranno sempre più frequenti, andando ad alimentare anche le attività criminali[22], che coinvolgeranno tutto ciò che riguarda il mercato genetico: trasferimento improprio di sequenze genetiche, trasferimento di prodotti genetici, violazione di banche di cellule staminali, produzione ed immissione nel mercato di dati genetici, rilascio illecito nell’ambiente di prodotti geneticamente modificati, furto di cellule e/o tessuti, falsificazione della prova di Dna[23], produzione di organismi geneticamente modificati vietati dalla legge, ed anche indebita appropriazione dei prodotti tutelati con brevetto.

Quale soluzione?[24] Vi è chi ritiene utile rinvenire delle alternative possibili al brevetto, soprattutto negli Stati Uniti, nelle regole relative al copyright o alla tutela dei marchi.[25] È stata altresì esaminata la possibilità di applicare anche le regole relative ai marchi, soprattutto ove si consideri la creazione ex novo di sequenze di Dna. Altro rimedio ancora potrebbe essere l’abbandono dei meccanismi di tipo proprietario e l’abbraccio della condivisione di informazioni (con sistemi di open access che si sono sviluppati nel mondo dei software)[26].


[1]        In Italia, l’art. 6, comma 3 l. 40/2004, permette di cambiare idea solo fino alla produzione degli embrioni e non fino all’impianto («La volontà può essere revocata da ciascuno dei soggetti indicati dal presente comma fino al momento della fecondazione dell’ovulo»).

[2]        Tommaso Scandroglio, L’embrione a chi lo do? Dove porta la vita Frankenstein, 4 maggio 2015, http://www.lanuovabq.it/it/articoli-lembrione-a-chi-lo-do-dove-porta-la-vita-frankenstein-12545.htm

[3]        Can Sofia Vergara’s Ex Legally Stop Her From Destroying Frozen Embryos?, in http://jezebel.com/can-sofia-vergaras-ex-legally-stop-her-from-destroying-1698275445

[4]        «The case would be closer if Mary Sue Davis were seeking to use the preembryos herself, but only if she could not achieve parenthood by any other reasonable means. We recognize the trauma that Mary Sue has already experienced and the additional discomfort to which she would be subjected if she opts to attempt IVF again. Still, she would have a reasonable opportunity, through IVF, to try once again to achieve parenthood in all its aspects genetic, gestational, bearing, and rearing. In other words, a mother who wanted a baby but could not have biological children without using the stored embryos would be favored by the court. Because Mary Sue Davis did not want to use the eggs herself, her husband, Junior Davis, won the case.» Can Sofia Vergara’s Ex Legally Stop Her From Destroying Frozen Embryos? (http://jezebel.com/can-sofia-vergaras-ex-legally-stop-her-from-destroying-1698275445) 4 aprile 2015. La storia è analizzata con completezza da Chiara Lalli: «Marie Sue e Junior Lewis DAwis si sposano all’inizio degli anni ottanta e desiderano avere dei figli. Mary Sue rimane incinta ma l’embrione non riesce ad impiantarsi nell’utero e viene abortito. Per cinque volte Mary Sue prova a portare a termine una gravidanza, ma ogni volta l’embrione si arresta nelle tube e non riesce a sopravvivere. L’ultima gravidanza danneggia una tuba della donna e la costringe a subire l’asportazione di entrambe le tube per evitarle gravi rischi di salute. Mary Sue ha 22 anni e non può più avere figli naturalmente. I Davis decidono di ricorrere alla fertilizzazione in vitro (FIV) […] Mary Sue viene sottoposta a cicli ormonali per stimolare la produzione di cellule uovo, che vengono poi estratte con una laparoscopia e fecondate con lo sperma del marito; gli embrioni risultanti vengono impiantati nell’utero della donna. Sei tentativi nel corso di quattro anni falliscono. I Davis, allora, cercano di adottare un bambino, ma anche questa strada fallisce a causa del ripensamento della madre naturale. Scoraggiati, tornano dal dottore per un ennesimo tentativo. È il 1988 e un’innovazione delle tecniche di procreazione assistita, la crioconservazione, infonde qualche speranza alla coppia. Nel dicembre 1988 vengono prelevate e fecondate 9 cellule uovo dalle ovaie di Mary Sue; gli embrioni vengono lasciati crescere fino allo stadio di 8 cellule, poi due di essi vengono impiantati e gli altri sette conservati nell’azoto liquido. L’impianto fallisce. Pur avendo preso in considerazione la donazione dei rimanenti embrioni nel caso in cui Mary Sue fosse rimasta incinta, i Davis non prendono una decisione riguardo al destino dei 7 embrioni congelati, né firmano un accordo per disporne in caso di morte o divorzio. Nel febbraio 1989 Mary Sue e Junior si separano: che fare dei 7 embrioni crioconservati? Mary Sue chiede che le vanga riconsociuto il diritto di restare incinta utilizzando gli embrioni congelati, inoltre ella sostiene che essi siano “preborn children” e dunque titolari di diritti propri. Junior chiede invece che sia rispettato il suo diritto a NON diventare padre. Il giudice dà ragione a Mary Sue. L’elemento centrale della sua decisione è costituito dalla definizione dello statuto degli embrioni congelati: sono persone o prodotti? Secondo il giudice gli embrioni sono persone (preborn children) e non prodotti, e la vita personale ha inizio col concepimento. Di conseguenza, la prospettiva più giusta per giungere a decidere del destino degli embrioni è quella del migliore interesse per gli embrioni stessi, senza tenere conto delle apsirazioni dei contendenti. Il supremo interesse degli embrioni, secondo il giudice, è nascere; il supremo interesse degli embrioni è di essere impiantati nell’utero della propria madre […]

[5]        Caso Davis vs. Davis (1992), traduzione italiana della scrivente. Il testo in inglese con la sintesi dell’intera vicenda è reperibile sul sito https://embryo.asu.edu/pages/davis-v-davis-1992

[6]        La sintesi della sentenza e della vicenda è reperibile on line in molti siti ma non su quello ufficiale curia.eu

[7]        Interessante il commento di Chiara Lalli: «Al di là degli aspetti giuridici del caso, vorrei azzardare qualche considerazione su quelli etici. È interessante notare come due dei giudici, dissociandosi in parte dalla sentenza, abbiano affermato che il diritto della donna ad avere un figlio debba essere considerato superiore a quello del partner a ritirare il proprio consenso. Mi pare tuttavia che esista un diritto uguale e opposto a non avere un figlio; e che l’uso dei propri geni rientri in una sfera di autodeterminazione privata che non può essere violata, neppure per impedire che un altro subisca un danno. Immaginiamo che l’embrione non fosse stato ancora concepito, e che i gameti delle due persone coinvolte si trovassero congelati separatamente: penso che in questo caso avremmo qualche difficoltà ad ammettere che il seme dell’uomo potesse venire usato contro il suo consenso. Non riesco a vedere differenze fondamentali tra quest’ultimo caso e quello in esame; direi pertanto che il verdetto della Corte sia giusto, tenendo conto del fatto che l’embrione non è una persona e non può pertanto vantare diritti sui propri geni, che l’uomo non sembra avere assunto impegni giuridicamente validi riguardo all’uso del proprio seme, e che l’embrione si trova ancora in provetta e non nell’utero materno (in caso contrario prevarrebbe naturalmente il diritto ancora più fondamentale della donna all’inviolabilità corporea, che è tanto forte da valere persino nel caso in cui una donna rimanga incinta contro la volontà del partner: questi non avrebbe comunque il diritto di farla abortire)» Chiara Lalli, Sul caso di Natallie Evans, 10 marzo 2006, http://bioetiche.blogspot.it/2006/03/sul-caso-di-natallie-evans.html

[8]       Francesco Donato Busnelli, Opzioni e principi per una disciplina normativa delle biotecnologie avanzate, in Riv.Crit.Dir.Priv., 1991, pag. 284

[9]       Come sostiene Adolf Kaufmann, Riflessioni giuridiche e filosofiche su biotecnologia e bioetica alla soglia del terzo millennio, in Riv. dir. civ. 1988, pag. 228, «delle decisioni normative responsabili non possono essere prese neppure soltanto sulla base del criterio della situazione concreta. Debbono essere capaci di raccogliere consenso, e per questo occorre la loro generalizzazione nel contesto delle conoscenze e delle esperienze di altri: altri studiosi, altri scienziati, altre istituzioni, altre associazioni, altri paesi. Forse in nessun campo il discorso razionale, il dialogo ragionevole interdisciplinare e internazionale è tantoimportante quanto nel campo delle biotecnologie»

[10]     Cfr R.S. Crespi, Biotechnology Patenting: The Saga Continues, in Biotechnology and Genetics Engineering Reviews, V. 15 1998 pag 379; V. D’Antonio, Invenzioni biotecnologiche e modelli giuridici: Europa e Stati Uniti, Jovene, Napoli, 2004, pag. 55

[11]     Si veda Giuseppe Sena, L’importanza della protezione giuridica delle invenzioni biotecnologiche, in Riv. Dir. Ind., 1990, pag. 75, il quale afferma tuttavia come non si debba trascurare che «con una certa contraddizione logica, diverse norme in tema di brevettabilità prevedano limiti in relazione ad esigenze che possiamo indicare come etiche o politiche, esigenze che attengono tuttavia, come ho accennato, alla attuazione delle invenzioni piuttosto che alla loro brevettabilità»

[12]     Art. 9 Costituzione Italiana «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e e della ricerca scientifica e tecnica»; art. 32 «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario obbligatorio se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti del rispetto della persona umana»; art. 33 «L’arte e la scienza sono libere […]»

[13]     Garante per la Protezione dei Dati Personale, Autorizzazione al trattamento dei dati genetici 2014

[14]     Secondo Rodotà le informazioni genetiche, per le loro caratteristiche, assumono particolare rilevanza per la costruzione della personalità, conformando le relazioni all’interno dei gruppi di consanguinei: non vi è perciò alcun motivo per ricondurle alla sfera della patrimonialità, in quanto le stesse sono la radice dell’unicità del sé e, al tempo stesso, proclamano l’impossibilità di una sua totale separazione.

[15]     Da un articolo tratto dalla rivista Panorama, 8 marzo 2007, «Sono comparsi i designer babies, i bambini su misura a seconda dei desideri dei genitori. Per chi dispone di questo desiderio e di 20.000 dollari, basta cliccare sul sito dei Fertility Insitutes di Los Angeles. Negli USA non esiste una regolamentazione che vieti la selezione del sesso a chi si affida alle tecniche di fecondazione assistita e alla diagnosi degli embrioni così creati. Il programma di selezione del genere, maschile o femminile, è garantito al 99,9% e inoltre viene offerto lo screening per almeno 200 malattie genetiche […] La scelta del sesso viene effettuata con metodi anche sofisticati, come il MicroSort, che utilizza la fluorescenza per colorare i cromosomi X e Y, e che viene usato anche per il liquido seminale. Le tecnologie della riproduzione consentono non solo di identificare gli embrioni affetti da malattie genetiche, ma scegliere il sesso del nascituro, e per effettuare, come in Cina e in India, una selezione definita sociale.» Questa tecnica è oggi oltremodo superata da un tipo di selezione addirittura eugenetica, e non solo sessuale, come dimostra l’articolo tratto da La Repubblica, 14 ottobre 2013, Nasce il figlio su misura, a la carte: una società californiana, la 23and Me, ha ottenuto un brevetto informatico che, grazie al calcolo di un particolare algoritmo, è in grado di calcolare la combinazione perfetta fra gamete femminile e maschile in modo da esaudire le richieste dei futuri genitori di un bambino “perfetto”

         Il 17 gennaio 2008 tutte le riviste internazionali di informazione hanno riportato l’annuncio dato dalla rivista Stem Cells, secondo cui un istituto di ricerca privato californiano ha creato 21 embrioni umani clonati, dei quali 5 sono realmente sopravvissuti, mentre 3 sono la reale fotocopia, ottenuti da cellule cutanee di due uomini e dagli ovociti di tre donne, utilizzando la stessa tecnica usata per clonare la famosa pecora Dolly (nel 1996), per approfondimenti si veda l’inserto speciale curato da Mario Pappagallo, ne Il Corriere della Sera, 18 gennaio 2008). Il 30 gennaio 2003 la rivista Cellule Staminali ha pubblicato l’inchiesta di Silvia Grilli, recatasi negli USA per farsi “clonare” da un celebre medico (tale Panayotis Zavos): ha sostenuto quindi colloqui con medici, analisi curate, accordi sui costi economici dell’operazione, e l’accettazione delle modalità di pagamento le ha consentito di entrare in una lista di candidati per la clonazione (Cellule Staminali, anno II, n. 62, 7 febbraio 2003)

[16]     Anna Falcone, Tutela della salute e della libertà della ricerca scientifica delle nuove biotecnologie di sintesi in campo genetico, afferma che in questo modo le poche aziende che possono permettersi tali costi vanno a “privatizzare” progressivamente le risorse genetiche del pianeta, compreso il genoma umano, e le conoscenze acquisite circa i suoi tratti codificanti

[17]     Richard Lewontin, Il segno del genoma umano e altre illusioni della scienza

[18]     Ad esempio, la Convenzione di Oviedo, all’art. 21, vieta che il corpo umano e le sue parti siano, in quanto tali, fonti di guadagno; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, all’art. 3, vieta di fare del corpo umano e delle sue parti una fonte di lucro

[19]     A tal proposito Giuseppe Cricenti, in I diritti sul corpo, mette a confronto le tesi di due insigni filosofi: Locke (nella sua opera Due trattati sul governo), secondo il quale ognuno ha il diritto alla proprietà sulla propria persona (questa tesi ha influenzato le regole sulla privacy e sul diritto di autodeterminazione del singolo); e Savigny (Sistema del diritto romano attuale), secondo il quale è invece illecito disporre di sé ed è un estremo sostenitore dell’indisponibilità dei diritti della personalità. Fra i due sapienti, vi è un terzo, Foucalt, il quale ha invece messo in luce come il potere sul corpo è oggi diffuso in tanti centri di potere, piuttosto che essere concentrato nella mani di uno Stato

[20]     Elio Sgreccia porta come esempio l’approccio dualistico di Cartesio che, separando la res cogitans dalla res extensa, pone l’eterogeneità fra pensiero e corpo (Elio Sgreccia, Corpo e persona, in Stefano Rodotà (a cura di), Questioni di bioetica, pagg. 113-114

[21]       In ultimis è del luglio 2015 la notizia del primo neurone sintetico, creato da un team di ricercatori del Swedish Medical Nanoscience Centre del Karolinska Insitutet, un neurone biosintetico che funzione come quello umano.

[22]       Carlo Antonio Gobbato, in Polis genetica e società del futuro, li definisce “crimini a base genetica”. La prima indagine penale in Italia su tali crimini è partita da Napoli, nel 2007, ed ha portato a provvediemnti di perquisizione nei confronti di 2 biologi e di un medico per congelamento d’embrioni in vista del loro commercio, Le ipotesi di reato consistevano nel fatto che erano stati venduti, a coppie sterili, embrioni prodotti da altre coppie, con trattamento illecito di ovociti, diagnosi di preimpianto e forme di stimolazione illegali

[23]      Pare infatti sia possibile fabbricare in òlaboratorio sangue e saliva con Dna di persona diversa da quella a cui si dovrebbe riferire. Il dottor Frumkin – fondatore della Nucleix, una società con sede a Tel Aviv – ha scoperto e mostrato come sia invece relativamente facile falsificare una prova del Dna, sostituendo al materiale genetico originale quello di un’altra persona. Frumkin ha ideato due diverse tecniche. La prima prevede l’uso di un piccolo campione (proveniente magari da un capello, o anche da un mozzicone di sigaretta) del Dna che si vuole sostituire a quello originale. Per provare l’efficacia di questo sistema, i ricercatori israeliani hanno preso un campione di sangue appartenente a una donna, hanno rimosso i leucociti (che contengono il Dna) con una centrifuga e poi hanno aggiunto il Dna proveniente dal capello di un uomo, ottenuto con una tecnica standard chiamata amplificazione genomica. Poi hanno inviato il campione alterato a un laboratorio americano che si occupa di analisi forense, che l’ha analizzato normalmente e riconosciuto come appartenente all’uomo.

L’altra tecnica non necessita del Dna di una terza persona: è in grado di ricrearlo usando i profili del Dna contenuti nei database delle forze dell’ordine, basati sulla collezione di frammenti di Dna. Una collezione di 425 diversi frammenti di Dna – dicono gli scienziati – è sufficiente per ricreare qualunque profilo

[24]      Il Nuffield Council on Bioethics nel 2002 ha pubblicato un discussion paper titolato The ethics of patenting DNA, con lo scopo di esaminare le problematiche etiche e giuridiche relative ai brevetti genetici, soprattutto per quello che concerne la cura della salute e la ricerca scientifica. I punti chiave del documento:

  • Vi sono indubbi benefici apportati alla società dal sistema brevettuale.
  • Ci si deve chiedere però se l’applicazione di questo sistema alle sequenze di DNA stia davvero contribuendo agli obiettivi di stimolare l’innovazione per il bene pubblico.
  • Le sequenze di DNA sono essenzialmente informazioni genetiche e non possono essere considerate uguali ad una sostanza chimica aiu fini del sistema brevettuale: il dibattito sulla possibilità di brevettare le sequenze di DNA necessita di ulteriori approfondimenti.

I requisiti di novità, non ovvietà e utilità richiesti per la brevettazione di sequenze di DNA non sono finora stati applicati in maniera sufficientemente rigorosa e molti brevetti concessi sono di dubbia validità.

Vi sono infatti 4 diversi usi per i quali può essere impiegata una sequenza di DNA, in relazione ai quali il Nuffield Council ha diverse raccomandazioni circa l’opportunità di pore brevetti: test diagnostici: applicare I criteri esistenti in modo rigoroso con particolare attenzione alla “non ovvietà” e considerare la possibilità di imporre la concessione di licenze per l’uso del tes; strumenti di ricerca: questo tipo di brevetto dovrebbe essere scoraggiato applicando in modo rigoroso il requisito dell’utilità; terapia genica: questo brevetto dovrebbe essere concesso solo in rari casi perché l’uso di un gene già identificato per la terapia genica non soddisfa il requisito di non ovvietà; proteine terapeutiche: quando il brevetto viene chiesto per una sequenza di DNA che viene usata come proteina terapeutica, dovrebbe applicarsi solo alla specifica proteina descritta. Nell’ultimo capitolo, quello delle conclusioni, si raccomanda che la brevettabilità delle sequenze genetiche segua i criteri previsti dalla legge (comunitaria, statunitense e giapponese) in un’ottica di comparazione ed equilibrio nel rispetto dell’ordine pubblico e dei principi etici, al fine di permettere uno sviluppo nella ricerca senza eccessivi sfruttamenti economici.

[25]       Arianna Neri, La tutela delle invenzioni nella biologia sintetica, analizza questi strumenti alternativi al brevetto. «Oggetto del copyright nel diritto statunitense sono le opere dell’ingegno manifestantesi con ogni mezzo di espressione tangibile, che possa essere percepito, riprodotto o comunque comunicato; pertanto le sequenze di Dna dovrebbero rientrare in questa categoria, essendo costituite da nucleotidi chimnici stabili. Peraltro nel diritto satunitense un lavoro letterario (protetto da copyright) è definito come un’opera espressa con parole, numeri o altri segni o simboli verbali o numerici, indipendentemente dalla natura dell’oggetto materiale in cui sono contenuti, per cui risulterebbe relativamente agevole includere il Dna in tale definizione, applicando le relative regole giuridiche […] La dottrina che ha affrontato queste tematiche rileva come nel diritto sattunitense il copyright conferisca tutela esclusiavemnte alle opere che non monopolizzano una particolare funzione. Se una sequenza di DNA sintetica rappresentasse, quindi, il solo modo di produrre una sequenza di Rna o di un polipeptide cin funzioni particolari, difficilmente potrebbe godere di una forte protezione attraverso tale forma di proprietà intellettuale. Nel caso, invece, in cui vi fossero diverse sequenze di DNA a poter dar luogo a Rna o a polipetidi con particolari funzioni, ogni singola sequenza potrebbe probabilmente ricevere una tutela tramite le regole del copyright.» (pag. 116)

[26]       Per approfondire, cfr. Arianna Neri, La tutela delle invenzioni nella biologia sintetica, pagg. 118-119