Bioetica, genetica e biodiritto
La scienza ha oramai un ruolo trainante nel mondo, anche rispetto allo sviluppo economico e sociale, e ciò ha fatto sì che istituzioni e diritto, pervasi da questa evoluzione, abbiano dovuto dedicare particolare attenzione alla regolamentazione della tecnoscienza.
La commistione fra scienza, società e politica è tale da incidere profondamente sull’intero sistema Stato, rendendo perciò evidente la necessità di ripensare ai concetti fondamentali del diritto delle Nuove Tecnologie. Nel Nostro Paese l’analisi di questo rapporto è avvenuta in chiave soprattutto bioetica.
Le più recenti scoperte nell’ambito della ricerca sono potenzialmente in grado di trasformare le forme della politica, del diritto e della società, portandola in una nuova dimensione, in cui la specie umana inizia a dominare la materia vivente: libertà e potere di scelta nascono dove prima c’era “soggezione” alle leggi della natura, creando nuovi diritti, nuovi doveri e nuovi problemi.
Nascono nuovi diritti e nuovi status giuridici quali “cittadinanza biologica”, “cittadinanza genetica”, “identità biologica”, “identità genetica” e tanti altri ancora: il cittadino chiede interventi generativi e rigenerativi sulla base dei suoi diritti di cittadinanza, sulla base di quella nuova logica di diritti che si sta via via delineando proprio grazie ai progressi delle bioscienze e quindi delle nuove condizioni societarie (la cd. polis genetica).
Nascono nuovi diritti e nuovi status giuridici quali “cittadinanza biologica”, “cittadinanza genetica”, “identità biologica”, “identità genetica.
Questi diritti umani di ultima generazione vengono invocati per le ragioni più disparate, un complesso di diritti che sembrano diventati oramai dei bisogni da soddisfare, un complesso di diritti che poggiano spesso su basi non oggettivamente certe e richiedono quindi una verifica, nonché un’adeguata riflessione bioetica e biogiuridica.
Le biotecnologie e le loro applicazioni, in particolare la genetica, stanno quindi modificando la condizione umana, ponendo questioni fino a due decenni fa impensabili.
In particolare, la genetica porta a conseguenze radicali questa tendenza, perché massima si fa la possibilità di conoscenza e scelta, e la creazione di ulteriori figure di diritti mette precocemente in discussione parte dei nuovissimi cataloghi che si era appena finito di compilare.
Già verso la fine degli anni ’70, quando furono inventate le prime tecniche di intervento sul DNA, il filosofo Hans Jonas sottolineava come i rapidi progressi della ricerca scientifica e l’innovazione qualitativa rappresentata dalla tecnologia genetica avessero dischiuso una nuova dimensione eticamente significativa, di cui non esistono precedenti nei criteri e nei canoni dell’etica tradizionale, sollevando problemi di genere completamente nuovo.
Il rapporto fra diritti fondamentali e pratiche biomediche può assumere due diverse connotazioni: in alcuni casi, la possibilità offerta da una nuova scoperta scientifica genera, da parte dell’individuo o della collettività, un interesse ad accedervi e trarne beneficio, e quindi ci si rivolge all’ordinamento giuridico affinché tale nuova opportunità venga regolamentata (si pensi, ad esempio, al diritto all’eutanasia, il diritto alla procreazione, il diritto alle manipolazioni genetiche). In altri casi le potenzialità altamente pericolose di talune pratiche generano, all’opposto, timore e necessità di tutela nell’individuo e nella collettività, di conseguenza ci si rivolge all’ordinamento affinché imponga limiti e divieti (si pensi, ad esempio, al diritto all’integrità del patrimonio genetico, e quindi al diritto a non subire manipolazioni).
Ciò porta a chiedersi: il ricorso a pratiche genetiche che, manipolando il soggetto, lo privano dei diritti inviolabili costituzionalmente garantiti, deve essere vietato?
Se invece il ricorso ad una certa cura/terapia genetica è in realtà espressione ed esercizio di un diritto costituzionale, esso deve essere consentito?